Sul metodo, la tecnica, la pratica, la meditazione: un'osservazione attenta e passiva
Federico ha chiesto: Caro Pier, hai spesso detto che non esiste una tecnica o un metodo per conoscere se stessi e divenire uomini liberi ma un “giusto atteggiamento alla vita”. Potresti chiarire meglio?
Pier ha risposto: Esatto! Dal mio punto di vista non v’è una tecnica, ma unicamente un “giusto atteggiamento” nei confronti dell’esistenza: uno stato mentale che ci permette di penetrare nella dimensione più intima e profonda dell’esistenza, attraverso una disposizione di totale apertura del “sentire”. Infatti, quando desideriamo comprendere veramente qualcosa, la nostra mente diviene silenziosa, i nostri pensieri si acquietano e, in questo modo, la realtà delle cose lentamente inizia a manifestarsi.
Quando ci diviene chiaro che ogni forma di preconcetto, di desiderio selettivo, di bisogno d'essere rassicurati o compiaciuti, opera come una lente che distorce e confonde la nostra percezione della vita, la nostra coscienza entra spontaneamente in uno stato che potremmo definire d’osservazione “attenta e passiva”. Non sei il primo a chiedere chiarimenti su questo punto. Cercherò quindi di approfondire nel miglior modo possibile questo aspetto.
La ricerca esistenziale nasce dall’esigenza di comprendere e rispondere pienamente ai due principali fenomeni che costituiscono l’umana esistenza.
Il primo fenomeno è la “sofferenza”. Sofferenza interiore, mentale, emotiva, esistenziale...
Il secondo fenomeno è il desiderio. Desiderio di ricercare e scoprire uno stato interiore solitamente detto felicità, appagamento, serenità, pace, realizzazione, piacere…
Le domande che più frequentemente nascono spontanee dall’inconfutabile veridicità di questi due assunti base sono:
Esiste la felicità, la pace, la realizzazione o quant’altro? Cosa sono e come nascono la sofferenza e il dolore?
Sofferenza e dolore possono essere eliminati, superati, evasi, o sono parte costitutiva dell’esistenza umana?
1. Premessa
Un antico detto popolare afferma: "Se a un uomo sì dà un pesce lo si nutre per una notte, ma se gli si insegna a pescare lo si avrà sfamato per il resto della vita". Nel peculiare mondo della “coscienza umana” potrebbe valere il detto: “Se ad un uomo parli d’amore e libertà lo avrai sfamato per il tempo delle tue parole, ma se lo aiuterai a scoprire l’amore e la libertà che vivono in lui l’avrai saziato per l’eternità”.
Per affrontare liberamente e serenamente il viaggio della vita, ciò che veramente conta è occuparsi del problema riguardante il “conoscere”. Com'è possibile conoscere veramente se stessi, penetrando e dissolvendo cose come il dolore, la sofferenza, la paura, l’odio, la rabbia, la morte. Come è possibile scoprire veramente se esiste in noi qualcosa come la pace e la serenità, evitando di operare attraverso autosuggestioni? Quando comprendiamo veramente qualcosa? Quando possiamo affermare che quanto stiamo sperimentando sia effettivamente realtà e non suggestione e condizionamento? Quando tentiamo di comprendere qualcosa, il problema inerente l’attività conoscitiva dell’individuo è basilare. Per comprendere veramente qualcosa, come ci si deve atteggiare, avvicinare, predisporre nei confronti di ciò che si sta per osservare?
Se giungiamo a comprendere pienamente e definitivamente attraverso quali modi e forme la nostra coscienza è in grado di penetrare ed esperire liberamente l'esistenza, avremo trovato la chiave capace di aprire ogni porta che incontreremo lungo il nostro cammino. Solitamente, però, noi uomini siamo più interessati alle risposte anziché cercare di sviscerare i segreti che si celano nelle domande. Quando abbiamo un problema o attraversiamo un momento di confusione, il più delle volte, desideriamo qualcuno che sia in grado di darci delle soluzioni immediate, qualcuno che abbia ricercato, faticato e compreso al posto nostro. È per questo che, nella migliore delle ipotesi, ci rivolgiamo a degli “esperti”.
Perché quel che ci preme di più è il cercare di evitare la fatica e il dolore che comporterebbe l’incedere con le proprie forze e la propria intelligenza. Questo atteggiamento, dal mio punto di vista, è frutto di “un’educazione” basta sulla dipendenza e la sfiducia nelle capacità e nelle risorse dell'individuo.
Abituarsi a dipendere dalle parole e dalle esperienze altrui, con il tempo, ci rende profondamente insicuri, timorosi di commettere errori e di guisa ottusi nel pensiero e privi di coraggio. Ottusità di pensiero, sfiducia, paura, insicurezza e dipendenza, sono l’humus su cui cresce ogni forma di sofferenza e violenza. Ma cosa caratterizza il dolore più di ogni altra cosa? A mio avviso, la perdita, da parte del soggetto, della sua capacità d’autodeterminarsi, di affrontare e risolvere le sfide della vita autonomamente, e, in ultima, la perdita della capacità di realizzare una vita interiore piena. Il nostro sistema "educativo" induce alla dipendenza, la dipendenza a sua volta genera sofferenza, la quale, a sua volta, progressivamente diviene un disagio interiore così radicato da costringerci a rivolgerci ai cosiddetti "esperti", perché alla fine di questo processo di deperimento interiore siamo divenuti effettivamente incapaci di risolvere autonomamente i nostri conflitti. Questo è il paradosso della profezia che si autoavvera.
La psicologia e la psichiatria si occupano di quegli stati mentali definiti “patologici”, ma perché nessuno si occupa seriamente delle radici del disagio? Perché trattiamo il disagio solo quando questo si manifesta e ci costringe ad operare con un individuo ampiamente compromesso nelle sue risorse interiori? Forse perché ciò comporterebbe il dover criticare e demolire buona parte dei presupposti su cui si fonda la nostra società? Forse perché questo scomodo lavoro non è molto remunerativo e non ci mette in buona luce?
Solo un’educazione fondata sull’autonomia, la responsabilità individuale, la fiducia nelle proprie capacità e la libertà di coscienza, può spezzare questo processo educativo malato, ma una siffatta educazione non è certo in linea con le logiche d'interesse di coloro che detengono posizioni di controllo reggendosi unicamente sulla psicologia della dipendenza. Dobbiamo smettere di condizionare persone sane e intelligenti dicendo loro cosa devono fare, come devono pensare, a chi devono credere, a cosa devono aderire e a chi devono ubbidire. Soprattutto dobbiamo smettere di far subire tutto ciò ai nostri bambini per il semplice motivo che essi sono gli individui più indifesi e meno tutelati. Bambini condizionati diverranno genitori condizionanti, e così la catena non si spezzerà mai. Per fermare questa spirale di dolore è indispensabile che gli adulti comprendano le logiche del condizionamento che hanno subito e che stanno perpetrando, riacquisendo, così, finalmente, quell'innata capacità di sperimentare e comprendere la vita, senza filtri o barriere. Se il mondo adulto continuerà ad essere sottoposto al giogo dell’autorità e dell'ignoranza di sé, non v’è alcuna speranza per le generazioni future.
Il nostro compito non è quello di dare risposte, ma unicamente quello di sollecitare e stimolare l’osservazione e la sperimentazione diretta e personale dell’esistenza. Per occuparci del sano ed equilibrato sviluppo del bambino e dell’adulto dobbiamo unicamente comprendere come l’essere umano possa autonomamente penetrare il fenomeno “vita”. Dobbiamo iniziare ad occuparci gli uni degli altri come fratelli, e non erigere alcuni a maestri e confinare altri allo stadio di alunni perennemente ripetenti.
2. Le forme della ricerca
Tutti cercano qualcosa: piacere, fama, gloria, potere, sicurezza, felicità, amore. Tutti noi, almeno in una cosa, siamo uguali: desideriamo e vogliamo ottenere qualcosa. Detto ciò, possiamo facilmente distinguere tre fondamentali approcci di ricerca che l’uomo assume nei confronti di se stesso e del mondo che lo circonda.
Il primo è un approccio di “ricerca motivata a priori”, vale a dire una ricerca che scaturisce da una particolare necessità, da un bisogno che è causa, direzione e fine della ricerca stessa. Se vogliamo vivere nel lusso cercheremo di guadagnare molti soldi. Se vogliamo diventare genitori cercheremo di generare dei figli. Se vogliamo trovare Dio inizieremo ad abbracciare qualche fede o a seguire qualche pratica o setta strana. Questo atteggiamento non si interroga mai sulle ragioni del desiderio che sta alla base della ricerca, ma muove la persona unicamente a reperire quel che ritiene più utile per raggiungere l’oggetto desiderato. Questa forma di ricerca è profondamente sbagliata per quanto riguarda la possibilità di comprendere veramente qualcosa poiché non è minimamente interessata alla comprensione di ciò che veramente è quel qualcosa, ma unicamente alla soddisfazione dei contenuti emotivi e mentali che l’hanno generata.
Il secondo tipo d’approccio lo potremmo definire come “un’azione d’adeguamento” da parte dell’individuo all’ambiente circostante e, quindi, anche a ciò che a priori gli viene offerto. L’uomo che si muove nella vita assumendo questo approccio è unicamente interessato a reperire mezzi noti per raggiungere fini altrettanto noti. Questo atteggiamento spinge la persona a giustificare le proprie azioni ed il proprio vivere sulla base di quel che la società ritiene buono e giusto. Il desiderio di fondo dominante è la sicurezza, che a ben vedere è il riflesso della paura prodotta dalla percezione di insicurezza, ma di tutto questo, il nostro uomo, non ne è certo cosciente, perché chi fugge dalla paura nulla teme di più che ammettere di fuggire dalle sue stesse paure. Infine v’è quell’approccio all’esistenza che ritengo indispensabile per poter comprendere realmente e risolvere i nostri problemi. Questo approccio lo possiamo definire “un atteggiamento d’indagine attenta e passiva”.
3. L’osservazione attenta e passiva.
È importante sottolineare la grande differenza che sussiste fra l’azione d’indagine e quella di ricerca. Compiere un’indagine su un determinato oggetto, su noi stessi, le nostre relazioni o qualunque altra cosa, significa cercare di osservare la realtà mossi unicamente dall’intento di voler comprendere ciò che c’è di fronte. Svolgere una ricerca, spesso invece, significa scrutare qualcosa al fine di individuarne particolari caratteristiche utili all’assolvimento di un fine predeterminato.
Ricercare significa manipolare, osservare principalmente quelle cose ritenute utili, escludendo poi tutto il resto. La ricerca è pertanto un’azione escludente, delimitante e manipolativa, tutte cose, queste, assolutamente dannose per una reale e piena comprensione di un fenomeno, qualunque esso sia. Per comprendere il nostro mondo interiore e tutti i suoi misteriosi avvenimenti è quindi fondamentale capire l’importanza capitale che gioca il modo in cui noi osserviamo. Non si potrà sottolineare e far riflettere mai abbastanza sull’assoluta importanza che esercitano i presupposti da cui muoviamo per comprendere l’esistenza. Quando sentiamo che qualcosa, in noi o fuori di noi, non va, la prima cosa che facciamo è cercare delle risposte, un aiuto, una via d’uscita. Tutta la nostra attenzione ed energia si sposta e focalizza immediatamente sulle possibili risposte. Tutta la nostra cultura inerente la cura della persona è stata completamente inglobata nel paradigma medico scientifico classico “sintomo – farmaco/stimolo – risposta”, e ormai allo stesso modo rispondiamo alle sfide della vita e del nostro mondo interiore. Un sintomo, spesso, per quanto riguarda il nostro mondo interiore, è, il più delle volte, un segnale da comprendere e non da eliminare o soffocare! Ma chi lo deve comprendere? Unicamente chi lo vive, e non lo specialista o l’analista. Specialista, analista, figure religiose e quant’altro, assolvono alla loro funzione solo quando operano da agevolatori, stimolatori di un processo di auto - osservazione e comprensione dell’individuo. La paura, il dolore per la perdita di un caro, l’angoscia per un futuro che ci appare sempre più incerto o l’inquietudine che sentiamo quando affiora in noi l’idea della morte, non sono sintomi di un male da curare, inteso come patologia.
Se ci osserviamo “attentamente e in modo passivo”, quando in noi affiora della sofferenza o qualcosa di sgradito, possiamo notare come questo evento faccia scattare immediatamente la necessità di trovare una soluzione capace di eliminare in modo subitaneo il disagio. Reagiamo cercando una via di fuga, una strada che ci porti il più rapidamente possibile a una modificazione dello stato interiore che ci turba. Ma fuggire non ci porterà mai a scoprire. Per risolvere un problema è necessario comprendere la natura del problema.
Farmaci, ideologie consolanti, fanatismi, ossessioni, droghe, continue ricerche della distrazione e dello svago, nella maggior parte dei casi fungono da anestetici, da momentanee evasioni, sino a poter divenire vere e proprie prigioni della mente dalle quali non si è più in grado di ascoltare il significato che le sfide della vita cercano di comunicarci. Spesso, infatti, il rimedio sbagliato è la causa principale dell’aggravarsi di un problema. È solo a questo punto che il concetto di patologia psichica trova la sua più chiara declinazione, cioè quando l’individuo si avviluppa all’interno di una struttura di pensiero reiterante, entro la quale non può giungervi più alcuna voce dissonante dal perpetuo e sempre uguale suo pensare e sentire.
Pertanto è un grave errore definire malattia, e trattare di conseguenza, quel disagio, quel segnale, quello stimolo che in origine è unicamente la peculiare forma che l’organismo o la mente adottano per dialogare con la coscienza, al fine di dirigerla e consigliarla entro gli argini del naturale e spontaneo divenire. Potremmo dire che la sofferenza ed il disagio sono la bussola della nostra esistenza, servono per segnalarci le rotte sbagliate o per indicarci l’orizzonte da seguire. Ma tutto dipende da noi, la bussola è solo uno strumento meccanico, che senza un capitano, capace di trarne i corretti insegnamenti, risulta totalmente inutile. È indispensabile cominciare ad ascoltare e vedere ciò che ci sta di fronte, ciò che ci punzecchia continuamente, che ci irrita e ci ferisce, perché il nostro mondo interiore non risponde alle leggi della meccanica, ma unicamente alle leggi dell’intelligenza. E per comprendere l’intelligenza è necessaria l’intelligenza, null’altro. L’unica strada possibile è, quindi, intraprendere una seria indagine, divenendo scienziati di noi stessi, del nostro mondo interiore.
Quando riconosciamo l’esistenza di un problema, fuori o dentro di noi, quale sarà la nostra esigenza primaria? Prima cercheremo di ascoltare e vedere il problema, solo così avremo poi la comprensione sufficiente per agire correttamente. Non possiamo agire d’impeto, alla ceca, spinti dalla paura di rimanere almeno per un po’ di tempo con ciò che ci confonde e spaventa!
Il primo passo di un’indagine determina tutto il suo futuro percorso. Se le prime mosse sono fallaci, ed erroneamente vengono date per valide o per già sufficientemente fondate, molte forze e tempo saranno persi nell'invano tentativo di cercare teorie che vadano a loro sostegno. È però comprensibile che l’uomo sia più interessato ad avere delle soluzioni immediate, piuttosto che intraprendere un a volte doloroso percorso di comprensione. La sofferenza, infatti, è un fenomeno che agisce direttamente sulla “pelle” di chi la osserva. È, quindi, relativamente facile divenire degli scienziati del mondo che vive fuori di noi, ma è una cosa straordinaria essere degli scienziati del nostro mondo interiore.
Se l’individuo si lascia trasportare dalla necessità di scovare un’immediata soluzione alla sua condizione di disagio, è facile che trovi rimedi più dannosi che utili o che si lasci condurre da persone che non sanno nemmeno loro dove stanno andando, e ahimè si sa che più una persona soffre, più è disposta a credere in qualsiasi cosa possa darle una minima speranza. Per comprendere le leggi del nostro mondo interiore si devono osservare tutti i fenomeni che compongono le nostre complesse, quanto meravigliose, esistenze, come un astronomo osserva il cosmo, pieni di stupore e meraviglia per l’infinito e misterioso spazio che ci sta di fronte. Ma per fare ciò dobbiamo come prima cosa smettere di aver paura delle nostre paure, iniziando così ad affrontare la realtà di quel che si nasconde in noi. Osserviamo attenti e fiduciosi l’oscurità dei nostri cieli interiori, e lasciamo che siano le comete e i pianeti, che lì si muovono, a parlarci del loro mistero.
4. Conclusione
Da quanto detto finora risulta che l’osservazione attenta e passiva è il fondamento stesso del fenomeno della consapevolezza, e comprendere come lasciare operare la consapevolezza è l’inizio e la fine di ogni vera indagine. Lo stato mentale “attento e passivo”, inizialmente si percepisce come uno sforzo, una sorta di esercizio. Questo avviene per il semplice motivo che siamo ormai assuefatti ad una continua attività caotica del pensiero, ma perseverando con fiducia, lentamente lo stato “attento e passivo” può ridivenire quella condizione naturale che portavamo con noi, in potenza, sin dal nostro primo respiro.
Approfondirò, per chi lo volesse, in un’altra occasione, alcuni aspetti pratici utili alla corretta sperimentazione di questo stato d’osservazione. Per ora credo che quando detto sia più che sufficiente.
Tags: Equilibrio interiore, Pace della mente
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