"Salvare" i propri genitori: dipendenza e libertà
Luigi ha scritto: Caro Pier, mi chiedo come essere premuroso nei confronti di due genitori che mi hanno creato sempre problemi ed ora sono vecchi, bisognosi quanto ancor più conflittuali? Come non cadere nella dipendenza? A volte mi vedo come un salvatore che interviene sempre quando scoppia la guerra, altre volte mi percepisco come una vittima. Son combattuto fra considerare il figlio ‘salvatore’ come degno di stima, con gran temperamento, assertivo, oppure un poveraccio che si è fatto carico della vita dei genitori. Che fare? Lasciare che se la vedano fra di loro o insegnare uno stile comunicativo più costruttivo?
Pier ha risposto: Essere premurosi significa mettere la propria totale e amorevole attenzione quando si sta accanto a una persona: essere totalmente presenti, aperti e recettivi all'incontro con l'altro. La dipendenza è un fenomeno passivo, che perdura nel tempo, un qualcosa che si subisce e di cui non si può fare a meno quanto ce ne si vorrebbe sbarazzare. La premura è un fenomeno attivo, è un azione potente che nasce da un cuore aperto che riversa il suo amore completamente nell'attimo che vive, nella persona che incontra, senza dipenderne in alcun modo. La premura risponde alla situazione, ma quando la situazione finisce non rimane alcun residuo nella mente e nel cuore, pertanto è subitanea, atemporale. La dipendenza è un continuo rimuginare, trascinare pensieri antichi sugli spazi vuoti e immacolati del sempre nuovo presente. Mi spiego meglio. Un figlio incontra la madre che, come di consuetudine, inizia a lamentarsi del padre per le solite vecchie storie, le solite mancanze ecc.. Premuroso il figlio le risponde in base a quel che la sua consapevolezza vigile e aperta gli suggerisce, pertanto, magari, le dice: “Madre, perché perdi ancora il tuo tempo girando il dito nelle piaghe del passato? Perché non provi a guardare tuo marito con occhi nuovi, come se vi incontraste per la prima volta? Facendo così, forse, smetterete di discutere e soffrire in questa piccola e angusta casa e scoprirete che fuori ci sono ancora mille strade dove poter passeggiare assieme ascoltando il canto degli uccelli e godendo le carezze del sole”. Detto questo il figlio se ne va per la sua strada senza pesi e senza rancori. Qualche giorno dopo rivede la madre la quale imperterrita riprende la sua lamentela nei confronti del marito. A questo punto il figlio, sempre consapevolmente e premurosamente afferma perentorio: “Madre! Finiscila! Stai sprecando sia il tuo tempo che il mio. Se non ami più quest'uomo lascialo, se lo ami ancora inizia a cambiare per aiutarlo a cambiare. E da oggi non venire più a lamentarti da me, è ormai cosa inutile e dannosa”. Questo è solo un esempio di come può esprimersi la premura e la consapevolezza. L'accento non va posto sulle parole ma sull'intenzione incondizionata e amorevole!
Un figlio incontra il padre che, come di consueto, si lamenta della madre per le solite vecchie incomprensioni, ecc.. Subito il figlio entra in ansia, sente di dover fare qualcosa, di dover rassicurare il vecchio genitore: vedrai che andrà meglio, le cose cambieranno, ci parlo io con lei, tu non preoccuparti. Detto ciò va a casa pieno di pensieri, sensi di colpa e paure. Qualche giorno dopo rivede il padre, il quale imperterrito riprende la sua litania. A questo punto il figlio sbotta: “Non ne posso più di voi due, è tutta la vita che mi rovinate la vita. Vi odio, non sapete fare altro che litigare, io sono venuto sempre e solo dopo i vostri stupidi conflitti, sono sempre e solo stato un qualcosa a cui potevate aggrapparvi o usare per trovare nuove scuse per litigare. Non vi viglio più vedere.” Detto ciò, dopo poche settimane tutto ricomincia da capo, con il figlio che cerca di risolvere i guai dei suoi genitori. Questo è solo un esempio di come può esprimersi una persona dipendente. Ma questo figlio di chi è schiavo? Dei suoi genitori o di se stesso, della sua incapacità di essere adulto, del suo desiderio di avere dei genitori premurosi e capaci di ascoltarlo?
Ultimo esempio. Un figlio non va più a trovare i suoi genitori da anni. Un giorno gli arriva una lettera di sua madre che gli comunica che il padre è morto e che avrebbe piacere di parlargli. Il figlio prende la lettera e la butta nel camino. Questo è un esempio di come potrebbe reagire un figlio strafottente, cioè che mostra noncuranza sfacciata (come da dizionario). Tralascio tutta la discussione sul cosa cela realmente la strafottenza altrimenti non la finiamo più.
Essere premurosi per me è un qualcosa di meraviglioso e non lo si può essere per qualcuno in particolare poiché la premura non è qualcosa di legato a ciò che sta fuori da me, ma è l'espressione della mia consapevolezza, del mio stesso Essere. Posso essere premuroso verso un mendicante che incontro per la strada, verso un mio amico, come verso il mio vecchio padre o il mio vecchio è stupido genitore. La mia disposizione d'animo non cambia con il variare del soggetto che ho di fronte poiché quando il mio Essere è disponibile io non sono più dipendente da ciò che sta fuori da me. Mio padre o mia madre sono sempre stati violenti e incuranti nei miei confronti? Bene, questo è il passato, questo è ciò che ha vissuto quel bambino giustamente bisognoso che ero, ma che oggi è cresciuto sino a divenire totalmente libero, pertanto chi può provare ancora rancore nei confronti di questi due poveri vecchi? Il mio vero essere non percepisce più alcun legame con le memorie passate, con le esperienze trascorse.
Tutto ciò che ora accade lascia in me i segni che lascerebbe un dito che scrive nell'acqua. Con questa consapevolezza interiore guardo i miei genitori e finalmente li percepisco per quello che sono, senza gli ostacoli di tutte le ferite che mi hanno inferto nel passato, senza i blocchi di vecchie memorie. E cosa vedo adesso? Due persone che hanno cercato di crescere un figlio come meglio o peggio pensavano, per quel che avevano e potevano. È stato veramente poco? È stato veramente doloroso? Ognuno ha ricevuto la sua croce, più o meno piccola. Ma ora che importanza ha? Nessuna, perché in me non v'è più traccia di quel qualcuno che è stato ferito in passato. Ora la premura e la consapevolezza che vivono dentro di me mi fanno rispondere liberamente e totalmente alle situazioni, pertanto forse in alcuni momenti sarò tenero e accogliente, altre volte sarò duro e distante, in alcuni casi potrò addirittura comprendere che l'unica cosa da fare è abbandonarli a se stessi, ma sempre partendo dalla percezione chiara che nulla di quel che faccio nasce dall'odio o dal capriccio. Così vedo l'agire di un uomo libero e premuroso, ma in tutto il suo fare non v'è alcuna intenzione di essere un salvatore. Nessuno può salvare qualcuno, poiché a ognuno è data unicamente la possibilità di donare quello che si è, e questo dono a volte trasforma, a volte ferisce, altre volte non intacca minimamente la persona a cui viene offerto perché questa è così chiusa da non poterlo ricevere, ma, comunque, colui che dona non si preoccupa mia di quel che accadrà del suo dono. La sua unica intenzione si consuma nell'atto stesso di donare. Essere se stessi significa unicamente vivere senza barriere e tutto ciò non ha nulla a che fare con l'idea del salvatore, del guru o altro. Non v'è nulla di più pericoloso e dannoso di coloro che si ritengono maestri. Per esempio, io parlo con le persone, rispondo a delle domande unicamente condividendo quel che sento e vivo, senza mai pensare di dover cambiare chi mi sta di fronte perché sbagliato. Se un cambiamento accade non l'ho determinato io ma è accaduto spontaneamente a causa della relazione che si è instaurata, e una vera relazione è sempre fatta da due persone più quel misterioso insieme che le due persone generano e che definirei il terzo ignoto, il mistero, l'insondabile. Vero è che più due persone sono aperte e recettive più il terzo ignoto può manifestarsi!
La tua lettera continua: “Son combattuto fra considerare il figlio ‘salvatore’ come degno di stima, con gran temperamento, assertivo, oppure un poveraccio che si è fatto carico della vita dei genitori.”.
Degno di stima? Ma da parte di chi? Le relazioni, comprese ovviamente quelle fra genitori e figli, dovrebbero essere un fenomeno d'amore, giusto? Dal mio punto di vista l'amore non conosce la stima, non agisce mai avendo un'idea di sé poiché quando si ama il sé, l'io, l'ego, evaporano. Tu parli di salvatori e figli stimati, ma queste, per me, sono tutte parole che nascono dall'ego per nutrire l'egoismo. Se amo qualcuno non agisco mai chiedendomi se sono degno di stima, ma faccio unicamente quel che il mio cuore mi dice di fare: il cuore non conosce la parola stima. “Non sappia la tua mano destra ciò che fa la tua mano sinistra”, sta scritto nei Vangeli. La mano sinistra è la mano del cuore e la destra è la mano della mente. Tradotto: “Che la tua mente non faccia muovere il tuo cuore valutando secondi fini. Che la tua mente sia nel silenzio e il tuo cuore liberamente viva”.
La stima è il prodotto del giudizio che le persone hanno in merito a determinate azioni, ma nell'azione che scaturisce da una relazione cosa me ne può fregare di cosa pensa la gente? L'unica cosa che mi interessa è l'essere totalmente presente e aperto a quella relazione. Qualcuno può pensare: “non mi interessa l'opinione degli altri ma unicamente l'opinione della persone con cui sono in relazione”. Ma anche questo pensiero, per me, è un inganno, un seme dell'ego che porta dolore. Se sto in relazione con una persona preoccupandomi del suo giudizio nei miei confronti, la mia relazione sarà sempre di dipendenza, paura e distanza. Fra me e quella persona si interporrà continuamente il mio “me”, il mio bisogno di essere apprezzato e la mia paura di essere disprezzato, respinto. Credo sia per questo che tu vedi le cose entro un dimensione estremamente dicotomica: salvatore o poveraccio. Questo è il prodotto di un “me” che ostacola la possibilità del nascere di una vero incontro, di un vero Sé.
Ancora tu dici: “Lasciare che se la vedano fra di loro o insegnare uno stile comunicativo più costruttivo?”.
Se come dicevo prima nessuno può insegnare qualcosa a qualcuno, tentare di insegnare qualcosa ai propri genitori e la cosa più assurda del mondo. Solitamente chi ha tentato di insegnarti qualcosa per tutta la vita, chi si è sempre identificato con l'idea d'essere la tua guida, il più grande, l'adulto, non accetterà mai di mettersi nelle condizioni di prendere qualcosa da te. E troppi genitori portano in sé tutte queste cose nei confronti dei loro figli. Nema profeta in patria, figuriamoci con i propri genitori!
In sintesi ritengo che tutto venga da Sé più noi facciamo conoscenza del nostro Sé. Più siamo aperti, recettivi, consapevoli e liberi da condizionamenti e idee varie, più siamo capaci di vivere l'istante con intensità, lucidità e profondità. Da questa condizione, con qualunque persona entriamo in contatto, amici, genitori, colleghi o perfetti bifolchi, quel che ne scaturisce è una lezione sempre nuova, in primis per noi stessi e poi, forse, anche per chi ci sta di fronte, ma questo non dipende da noi ma unicamente dal grado di apertura e ricettività della persona che incontriamo, al di là del nostro volere, al di là del nostro ego.
Tags: Aiuto psicologico, Problemi in famiglia
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